Appesi a un filo

Tutto ha inizio da un semplice invito, subito intuisco che ciò potrebbe rivelarsi interessante, ed infatti l’invito è accettato! Attraverso un breve tratto di mare su una barca dai classici colori bianco e blu oltremare, la profondità del mare è di qualche metro, mentre sul fondale sabbioso la Caulerpa prolifera la fa da padrona. Dopo circa dieci minuti approdiamo nella più nota, anzi notissima isoletta dello stagnone di Marsala. Gli “addetti ai lavori”  da più parti del mondo hanno già capito dove mi trovo; sono in un luogo fantastico, unico, pieno di storia, che fu fondato nell’ VIII sec a.C. da un popolo di navigatori e mercanti che diedero vita a un impero commerciale di grandi proporzioni attraverso il Mediterraneo. Avete capito bene mi trovo a  Mozia!

Attraverso un viale si raggiunge uno splendido caseggiato è il Museo G. Whitaker e quì una visita non può mancare. Gli oggetti provenienti dagli scavi in esposizione fanno bella mostra di sé già dai primi del 900; collezione di capolavori di valore inestimabile sono collocati all’interno di vetrine di legno verniciate di bianco con a fianco la didascalia dell’oggetto, anche fuori dalle vetrine sono situati altri reperti.

Tra tutto quasi nascosti in maniera molto discreta noto dei cubetti, sembrano ciotoli, posti lì  senza tanta importanza, eppure proprio essi con la loro funzione hanno portato avanti l’economia del luogo. Questi reperti emersi dagli scavi archeologici non sono altro che pesi per telai.

I telai erano costruzioni molto semplici la cui  intelaiatura in genere rettangolare era strutturata con assi di legno messi in posizione verticale, essi permettevano di tessere ovvero di intersecare due ordini di fili in orizzontale e in verticale.

I pesi in argilla (o in pietra) svolgevano la loro funzione appesi a un filo quello dell’ordito in modo tale da attuare una buona tensione. Così immagino le donne dell’epoca che erano intente attorno a questa preziosa “macchina” a tessere tele per i propri familiari o per chi per committenza li richiedeva e se poi piaceva dare il colore porpora al tessuto ecco che la colorazione si otteneva da un crostaceo il murex trunculus e il murex brandaris che si trovava in abbondanza nelle coste.

Sembra che i Fenici siano stati esperti abili nel confezionare tessuti anche ricamati tanto che la lavorazione artistica che producevano i loro telai era apprezzata in tutti i Paesi con cui essi commerciavano.

Il nome Motya dato dagli stessi Fenici a questo lembo di terra significa filanda quindi strettamente collegato alla presenza di numerose botteghe per la filatura e tessitura.

L’eccellenza dei lavori del popolo fenicio trovano riscontro addirittura nell’Iliade quando Omero enuncia di “stoffe variegate, operedi donne Sidonie che  Paride portò ad Elena dagli antichi natali“.

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